mercoledì 8 maggio 2024

“Giorgia, una di noi”…

 


Con quegli occhiacci  gelidi “da” domatrice di leoni, il che a dire il vero è già un progresso rispetto a Mussolini, che, nel 1922, salì al Quirinale, “vestito come” un domatore di leoni.

Dicevamo con quegli occhiacci, Giorgia Meloni, crede ormai di potersi permettere tutto. A cominciare dall’appropriazione indebita della leggenda della borgatara. Che lei, furbissima, sfrutta a dovere.

Da bambina sembra abbia abitato qualche anno alla Garbatella. Però attenzione già allora quartiere in piena trasformazione sociale (poi diremo). In seguito la Meloni frequentò, se non erriamo, un istituto professionale al Tiburtino: nella Casalbruciato popolata di tassisti, commercianti, piccoli impiegati e qualche spacciatore. Gli stessi della Garbatella meloniana anni Ottanta, più operai,  grossisti e dipendenti dei Mercati generali all’Ostiense.

Tutto ciò non autorizza la definizione ufficiale di borgatara: abitante di una borgata.

Anche perché, già allora non si poteva parlare della Garbatella come quartiere suburbano (poi vedremo meglio).

Va ricordato un altro aspetto: sociologico. Giorgia Meloni ha percorso una carriera politica lampo dentro il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale nel momento del confuso melting pot nero-blu della transizione finiana verso e con il Cavaliere: a 21 anni consigliere della provincia di Roma, a 27 presidente di Azioni Giovani, a 29 deputato, a 31 Ministro della gioventù.

Il che non può non aver significato frequentazioni, conoscenze, assunzione di abiti relazionali e mentali elitari, quantomeno da quadro politico d’assalto. Altro che borgatara…

E qui va considerata anche l’estrazione socio-professionale (per usare un parolone) della famiglia: mamma pubblicista, padre, seppure assente, commercialista.

Lo stesso romanesco della Meloni, soprattutto come inflessione, piuttosto pesante, i modi, in particolare la gestualità, i silenzi studiati, gli sguardi di che crede di saperla lunga (“Ma che stai a di’…”), rinviano, non al borgataro semianalfabeta, magari un pugliese urbanizzato, studiato da Ferrarotti negli anni Sessanta-Settanta, ma al ceto impiegatizio alfabetizzato. E con pretese sociali.

Per capirsi: si pensi al tizio antipatico che sta dietro lo sportello di una Asl. Nella Meloni prevale quell’ aria di chi vuole darsi un tono, pur condividendo gli stessi strumenti linguistici del suo interlocutore davanti allo sportello.

Si potrebbe parlare di piccola borghesia reazionaria. Il che spiega la scelta missina a quindici anni, nel lontano 1992.

Ripetiamo Giorgia Meloni non è una borgatara. Non sappiamo, di preciso, chi le abbia attribuito questa nomea. Forse certa sinistra snob. La stessa – e non è una  battuta – che dopo “Caro Diario” di Moretti è corsa a comprarsi casa alla Garbatella, facendo crescere i valori immobiliari. Quartiere, per dirla con altro termine caro alla sinistra, oggi gentrificato: pieno zeppo di borghesi in carriera. Ovviamente, non meno importante per gli immobiliaristi l’aiutino o aiutone dei “Cesaroni” televisivi.

Altro che borgata. La “Garbante” ( sembra dal nome di una bella ostessa), o Garbatella, che sconfinava nella “Piccola Shangai” ( una baraccopoli in zona Tor Marancia), come borgata esisteva e riviveva ancora nei romanzi anni Cinquanta di Pasolini. Forse le sue cose migliori.

Poi tutto cambiò. Roma, dopo le mura, si estese oltre il “Grande raccordo anulare” (“all’ uscita 25, ce sta…”), e le borgate dei confinati politici interni, edificate da Mussolini in fretta e furia negli anni Trenta, sull’onda dello "sventramento" del centro storico (ad esempio San Basilio e Primavalle), si tramutarono in sgraziati isolotti, talvolta popolati di malavitosi, all’interno di Roma.

La “Garbante” invece seguì un percorso proprio. Come detto, perché baciata dalla fortuna del cinema e della letteratura, diciamo da Pasolini a Moretti. Insomma già negli anni Ottanta, al tempo dell’infanzia della Meloni la Garbatella era in piena trasformazione.

Oltre alla forza delle belle lettere, l’avvento di un rumoroso terziario ( banche, imprese, anche multinazionali, nuove cooperative edilizie di ministeriali e coppie affamate di decoro, urbano e non), prima lungo la Colombo, poi oltre in direzione del Laurentino, trasformò la Garbatella: fece crescere i prezzi degli immobili. Che iniziarono a salire negli anni Ottanta-Novanta.

Insomma, Giorgia Meloni non è una borgatara, ma una piccola borghese, una saccente reazionaria che ha fatto carriera. Proprio perché voleva distinguersi da quel popolo che oggi invece incensa.

Per la cronaca: “Giorgia, una di noi”, stando a un giornale (*), ora risiede al Torrino, a un passo dall’Eur, villa con con piscina. Alla faccia del popolo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/fatti/giambruno-inchiesta-sui-servizi-ora-meloni-teme-il-complotto-rjbar7m7?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR3BleA9KiNqgbLcHXiM4W%20 .

martedì 7 maggio 2024

Mosca e il terrapiattismo politico

 


Invitiamo i lettori a dare un’ occhiata alla rassegna stampa di oggi sul Giornalone (*).

Le prime pagine di quasi tutti giornali registrano una grande assente: la notizia dell’ordine dato da Putin al ministero della guerra, e pubblicamente (per la prima volta), di tenere “nel breve futuro” esercitazioni per prepararsi al “possibile uso di armi atomiche non strategiche ” (**). E quando la notizia c’è, è ben nascosta tra le altre. Provare per credere.

Naturalmente gli uomini di Mosca, a partire dal suo “duce”, collegano la decisione all’ “obiettivo di “garantire l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato russo”, addossando la colpa, delle conseguenze, piuttosto minacciose, di una misura del genere alle “dichiarazioni provocatorie e minacce contro la Russia da parte di certe personalità occidentali”.

Per capirsi: a Macron che parla dell’invio di truppe, se i russi dovessero sfondare il fronte ucraino, quindi guerra convenzionale, Putin risponde alzando il tiro e puntando sulla guerra non convenzionale. Puro e semplice uso dell’ Hard power, cioè del potere coercitivo, al massimo livello: quello della guerra atomica. Hard power, il lettore prenda appunto.

Ciò significa che la Russia è capacissima di tutto. Si noti: Russia. Infatti il problema non è rappresentato soltanto dal decisionismo di Putin. Da un uomo solo al comando. Dal momento che il grande consenso intorno alla sua figura, indica che egli è solo la punta di lancia di una mentalità degna di Ivan il Terribile, che accomuna l’intera classe dirigente russa abituata, da almeno quattrocento anni ( qui pesa, la tradizione dei Romanov), a nutrirsi di una cultura imperiale e imperialistica, dalle profonde radici, addirittura bizantine: il mito della Terza Roma, il panslavismo, eccetera, eccetera.

La Russia, a differenza dell’Occidente euro-americano,  non ha mai rinunciato a tale riserva mitologica (neppure al tempo Stalin). Per contro la cultura occidentale, euro-americana, oggi largamente imbevuta di pacifismo, proietta, quasi naturalmente, se stessa nell’altro. E di conseguenza dà per scontato che il tempo dei grandi imperi e dei progetti di conquista sia finito per sempre.

Non per nulla, anche in ambito politologico, riscuote consenso la teoria del Soft power, nel senso della reale possibilità di dominare, culturalmente l’avversario politico, senza necessità di ricorrere all’arcaico Hard power delle guerre. Detto sociologicamente: ammirazione invece di odio. Detto politologicamente: consenso invece di forza (***).

Si noti però il termine usato dai softpoweristi: avversario non nemico…

E qui fatta una precisazione importante: l’avversario condivide le nostre regole ed idee, mentre il nemico no. Quindi non può ammirarci. Ma solo odiarci. Ed è quest’ultimo il caso della Russia. Siamo davanti a  una macchina che fabbrica odio, che l’Occidente, imbevuto se non ubriaco di teoria del Soft Power,  continua a considerare una semplice avversaria.  Un innocuo e simpatico tagliaerba...

Insomma, la tesi difesa dai softpoweristi, dolciastra a dire il vero, è questa: prima o poi Mosca si convertirà, quindi inutile incattivirla.

Pertanto il silenzio della stampa sulle pericolose dichiarazioni di Putin non è che la scontata conseguenza del pacifismo europeo che crede nel Soft power. Nella forza dell’ammirazione verso i suoi valori.

Si tratta di una visione delle cose che risale a un periodo di grande sviluppo economico, politico e civile, quello che precedette la prima guerra mondiale, diciamo tra il 1870 e il 1914.  Quando molti politici, studiosi, intellettuali, credevano che l’unificazione economica e scientifica del mondo avrebbe  messo fine alle guerre. Tra i primi a sposare questa causa vi fu Herbert Spencer, brillantissimo sociologo, che oppose l’industrialismo ( Soft power) al militarismo ( Hard Power).  Così purtroppo non fu. E non sarà neppure in futuro.

Si ride del terrapiattisimo, che in qualche misura mette in discussione, l’indiscutibile, cioè la forza di gravità. Ecco, coloro che ignorano la pericolosità della Russia (nemica non avversaria), mettono in discussione la forza di gravità della politica, rappresentata da alcune regolarità metapolitiche.

Ne ricordiamo alcune: la persistenza, come continua ricostituzione, del potere; la presenza del ciclo politico segnato dalla conquista, conservazione e perdita del potere; la persistenza della dinamica amico-nemico (****).

Sia chiaro: che esistano forme di dominio politico soft è indiscutibile, soprattutto alla luce di regolarità, come quella della presenza di un centro politico o tradizione come fonte di appartenenza a una determinata unità sociale, oppure della persistenza o razionalizzazione-giustificazione dei fenomeni politici a livello comportamentale.

Però, ecco il punto, non può essere esclusa l’altra faccia della medaglia: quella del dominio politico hard, diciamo. Altrettanto rilevabile storicamente e sociologicamente, di cui Russia e Cina sono oggi le nuove reincarnazioni.

Pertanto è un grave errore, accettare l’idea che la Politica, come la Terra, sia piatta. Priva, ad esempio, di terremoti e scossoni militari, anche potenti, in chiave imperialistica, determinati dalla stessa forza di gravità della politica, studiata della metapolitica. Disciplina, quest’ultima, che potremmo definire una specie di fisica del potere, tesa ad approfondire non le briglie istintuali del potere (come in Foucault), ma i suoi aspetti statici (Soft power) e dinamici (Hard power), se proprio si desidera usare questi termini.

Certo, sarebbe bellissimo un mondo senza guerre, dove come recita Isaia (11, 6-8), “Il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà col capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno insieme e un bambino li guiderà”. Però, dispiace dirlo, la fisica metapolitica asserisce il contrario.

Ciò significa che il terrapiattismo politico potrebbe fare la fortuna della Russia e la rovina dell’Occidente. Mosca, va presa sul serio.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/ .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/internazionale/esteri/russia-nucleare-putin-insediamento_4PxV2ri8DScMKPXcqhB2HF .

(***). Per una teorizzazione di tali concetti (non in chiave metapolitica però) si veda Joseph Nye, Leadership e potere. Hard, soft, smart power, Editori Laterza 2010.

(****) Su questi aspetti rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Il Foglio 2023, 2 volumi.

lunedì 6 maggio 2024

Storie di ordinario antiamericanismo

 


Negli Stati Uniti nessuno prese le difese dei due giovani coinvolti nell’uccisione del carabiniere Cerciello . Sui giornali americani fu pubblicata la foto “shock” di uno dei giovani, bendato e ammanettato (qui in copertina), senza avanzare alcuna critica verso la polizia italiana.
 

Atteggiamento più giustificato, come allora si lesse, verso due ragazzi che avevano leso all’estero l’immagine degli Stati Uniti (*).

Al contrario, in Italia, si è tramutato in caso una storia che risale al febbraio scorso, addirittura finita oggi sulle prime pagine, del ragazzo di Spoleto, Matteo Falcinelli, fermato, maltrattato, poi rimesso in libertà dietro pagamento di una cauzione (**).

Che la polizia americana abbia la mano pesante è un dato di fatto. Come possono osservare, senza informarsi più di tanto, tutti gli entusiasti fruitori di telefilm e fiction poliziesche made in Usa.

Gli Stati Uniti sono un paese meritocratico, duro, chiunque sbagli deve pagare: il Watergate, lo scandalo Clinton,  i processi a Trump, ne sono, da ultimi, ottimi esempi.  

Però gli Stati Uniti,  a differenza delle repubbliche delle banane,  godono  di un eccellente sistema di garanzie legali e di una fluidissima rete sociale basata sulla libertà di intraprendere e fare, che noi in Europa neppure ci sogniamo. Basta leggere quel che scrisse Tocqueville, viaggiatore “cost to cost” (o quasi),   già due secoli fa.

E soprattutto, semplificando al massimo, gli americani non sono "piagnoni" come gli italiani. E neppure  "mammoni"... Si rimboccano le maniche, hanno le spalle sudate, e furono capaci di produrre, durante la Seconda guerra mondiale, una media di cinquantamila aeroplani da guerra all'anno, nonché  formare, sempre su base annua, circa trentamila  piloti. Se dio esiste, deve benedire per sempre gli Stati Uniti. Ci salvarono da quel pazzo criminale di Hitler. E poi, pure dal comunismo, schierando però milioni di luccicanti frigoriferi. Oggi invece  servirebbero di nuovo armi. Ma questa è un’altra storia.

Le reazioni, a dir poco scomposte, dei giornali italiani possono essere ricondotte solo al “piagnonismo” nazionale? No, c’è dell’altro.

Una cosa che si chiama “antiamericanismo”. Che da noi è ordinaria amministrazione, almeno dalla fine dell’Ottocento. Prima cominciarono i papi, nemici del liberalismo. Poi toccò al fascismo, altrettanto antiliberale.   E oggi, ai suoi eredi, al governo. Che non hanno mai metabolizzato il 1945. Si dirà ma come  la Meloni fa l’amicona degli Stati Uniti, eccetera, eccetera?  Bah… 

Naturalmente non va dimenticata neppure la sinistra, un tempo filocomunista, oggi trasformatasi, come scrive felicemente Giuliano Ferrara,  in una "baby gang pacifista",  più antiamericana di prima (questo lo aggiungiamo noi).

Per tornare al governo  Meloni, si rifletta:  è normale una cosa del genere? Si legga qui:

«Il ministro degli Esteri ha avuto oggi pomeriggio, (domenica 5 maggio) una conversazione telefonica con la signora Vlasta Studenicova, madre di Matteo,: “Ho offerto alla signora e alla famiglia di Falcinelli – ha detto Tajani – la mia più calorosa solidarietà, e soprattutto ho confermato che il Consolato d’Italia a Miami e tutta la Farnesina continueranno a seguire il caso giudiziario e offriranno assistenza al signor Falcinelli”. Tajani ha confermato alla famiglia Falcinelli che “il Governo italiano adempie a un suo obbligo quando difende con le sue strutture consolari cittadini italiani che richiedono assistenza in casi come quelle di arresti o detenzioni violente e brutali”» (***).

“Strutture consolari”. Per ora.

Comunque sia, sul piano della reciprocità, per metterla sul politico e sul giuridico, visto che l’Italia ha alzato il tiro, e diciamo a parità di "incaprettamento" e con in gioco pene molto più pesanti, non ricordiamo alcuna presa di posizione da parte di Mike Pompeo, Segretario di Stato,  all’epoca dell’omicidio Cerciello.

Dov’ è la differenza? Che il nostro clima culturale, con ovvie inflessioni politiche appena capita, è profondamente antiamericano. E ovviamente con l’estrema destra al governo, ora i nemici degli Stati Uniti, si sentono più forti.

Si dovrebbe invece  riflettere, su alcune cose. Ad esempio, su quel buffone di Mussolini, che per fare a gara di megalomania con Hitler, dopo Pearl Harbour,  dichiarò guerra agli Stati Uniti. Oppure che a causa della sconsiderata guerra fascista l’Italia prese tante di quelle legnate ( e purtroppo con il "duce"  gli italiani)...   Legnate comunque meritatissime, si badi.   E che infine, nonostante tutto, gli Stati Uniti non hanno mai mostrato alcun rancore verso l’Italia.

E invece che si fa? Si grida alla tortura.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.cittanuova.it/negli-usa-nessuna-pieta-gli-assassini-del-carabiniere/?ms=007&se=018 .

(**) Qui: https://www.ilmessaggero.it/persone/matteo_falcinelli_chi_e_studente_incaprettato_miami_mamma_cosa_dice-8097853.html .

(***) Qui (anche per capire la notevole ‘intensità della reazione della Rai meloniana) : https://www.rainews.it/articoli/2024/05/miami-arresto-shock-per-uno-studente-italiano-3c8ba00f-9fd4-4e15-ba22-14f22fae451c.html .

domenica 5 maggio 2024

La metafisica di Cacciari? Come la Corazzata Potëmkin

 


Ebbene sì, apertura volgarissima. La Metafisica concreta di Massimo Cacciari è una cagata pazzesca, proprio come la famigerata Corazzata Potëmkin del mitico Fantozzi.

Cacciari, classe 1944, che dagli anni Ottanta del secolo scorso, più longevo di Nilla  Pizzi,  imperversa sui palcoscenici radio-televisivi, è la personificazione dell’ intellettuale che pratica l “obscurum per obscurius” (“l’oscuro per mezzo del più oscuro”). 

Un’ espressione come insegnano i vocabolari, a cominciare dal Treccani, che rinvia a “quelle dimostrazioni o spiegazioni scientifiche che, invece di fornire una chiarificazione del loro oggetto, pretendono di lumeggiarne le oscurità con argomentazioni ancora più oscure, così da renderne la comprensione ancora più difficile di quanto già fosse prima”.

Ieri sul “Foglio” Franco Berardinelli ha massacrato l’ultima fatica di Cacciari (ma la fatica, veramente, la fanno i lettori…). E alla sua magnifica recensione rinviamo.

Berardinelli, argomentando acutamente, ha anticipato  in modo elegante il nostro giudizio fantozziano.

Accostammo Cacciari come lettori negli anni Ottanta. E subito sentimmo puzza di bruciato nel suo stile oracolare, a metà strada tra Nietzsche e Heidegger, che rendeva la pagina illeggibile. Lui risponderebbe subito che le “cose ultime”, proprio perché tali  sono per tutti e per nessuno. Un gioco di parole, che rinvia a un filosofo morto pazzo, e, non per colpa sua (ma dimmi con chi vai e ti dirò chi sei), adorato dai nazionalsocialisti.

Per ora abbiamo sfogliato Metafisica concreta… Letto il volume   qui e là. Siamo quindi superficiali nello scrivere questo note, così, di getto? Forse. Però come diceva un altro filosofo del Novecento, Gigi Proietti: “ Tu m’a rott’er ca’”… Insomma, quando è troppo è troppo.

Diciamo infine che poniamo una questione di metodo: qualcosa che torna sempre nei libri più filosofici  di Cacciari. 

Allora che cosa abbiamo notato? Il rifiuto, o in ogni caso la sottovalutazione, di Kant. Un vero gigante invece. Che con i suoi Prolegomeni ad ogni futura metafisica mise dei precisi paletti cognitivi, puntando correttamente sulla necessità di partire sempre da ciò che è noto ( metodo analitico), evitando così i voli pindarici, di chi invece, come Cacciari, continua a partire da ciò che non è noto (metodo sintetico).

Detto altrimenti: se la metafisica  vuole diventare scienza, deve fare un bagno di realismo, nel senso di partire dalle  cose come sono e non come dovrebbero essere. Si chiama anche umiltà cognitiva. Prerogativa del tutto sconosciuta a Cacciari, che invece edifica le sue tesi sulla boria etimologica. E qui il discorso sul metodo rinvia in particolare a opere precedenti, che invece abbiamo letto integralmente, come L’Angelo necessario (1986), Della cosa ultima (2004).

Cacciari come Isidoro di Siviglia, padre di un divertente (se letto con occhi moderni) enciclopedismo medievale, coltiva l’etimo come un plotone di esecuzione linguistico verso chiunque osi alzare il ditino. Insomma, si prende sul serio. E ogni volta, dopo il colpo di grazia, soffia sulla pistola fumante.  Un’ enciclopedia, la sua, che perciò non ha neppure il pregio di essere divertente come quella di Isidoro.

Però il gioco delle tre carte etimologiche dopo Kant non è più possibile. A meno che non si desideri tramutare la metafisica in un pasticcio di parole e concetti, per giunta oscuri. Si immagini una specie di enciclopedia a rate cacciariana che con la Metafisica  concreta giunge al quarantesimo volume.  Però sul piano del pacco, paccotto e contropaccotto. Filosofico.

Ma si pensi anche a un autoreferenziale romanzone degli Hobbit a sfondo pseudofilosofico. Basta sostituire Tolkien con Cacciari e la mappa delle Terra di Mezzo con la Mappa della Metafisica concreta. E il gioco è fatto.

Resta invece molto divertente, la lettura di non pochi recensori, deferenti, che si affannano – come capitava con un altro mago della pioggia etimologica, Lacan – a trovare o dare un senso, addirittura teologico, all’ universo Hobbit, ateologico, di Cacciari.

Il recensore in affanno ricorda il giornalista sportivo, dopo l’acquisto del classico bidone, magari caldeggiato dalla stessa stampa, che scrive che il calciatore pagato milioni comincia a mostrare qualcosa, che deve ambientarsi, eccetera, eccetera.

Altro che ambientarsi. Cacciari, come detto, imperversa, da quasi cinquant’anni, e per dirla con il Principe ignoto della “Turandot”: il suo mistero continua ad essere chiuso in lui. “Il nome suo nessun saprà / E noi dovremo, ahimè, morir!”…

Ma ci sarà poi un mistero?

Carlo Gambescia

 

sabato 4 maggio 2024

Piangere gli eroi con un occhio solo

 


Cadono le braccia. Si tratta in fondo di micro-fatti, che però, come le tessere di un mosaico, se uniti ad altri, vanno a comporre il grande affresco bizantino dei vischiosi rapporti tra politica e giornalismo in Italia.

Nel 2018, rimanemmo colpiti dalla defenestrazione di Alessandro Barbano, direttore del “ Mattino” di Napoli (*): giornale di proprietà di Francesco Gaetano Caltagirone (dal 1996).

Evidentemente, non piaceva la sua più che giustificata, giornalisticamente e politicamente, linea antipopulista contro il governo Giallo-Verde.

Ora dopo sei anni di purgatorio, diciamo così ( al “Corriere dello Sport-Stadio” e al “Riformista” con incarichi apicali però, come direttore di quest’ultimo), Barbano è diventato dal 1 maggio direttore del “Messaggero”,  altro giornale di Caltagirone ( sempre dal 1996). 

Un maleducato direbbe che è tornato all’ovile.

Barbano, nel suo primo editoriale, spiega che “se l’Italia è un Paese dove il discorso pubblico è malato”, tuttavia “da due anni quello stesso Paese incattivito e sostanzialmente immobile (…) è tornato a muoversi” (…)”. Sicché, “nell’attuale assetto bipolare della politica non ci sono alternative al governo in carica”. Inoltre “per l’inconciliabilità di programmi e linguaggi, l’opposizione è ancora lontana dal rappresentare un’opzione competitiva” (**).

Dov’ è finito l’antipopulismo di Barbano, che gli fece perdere il posto di direttore al “Mattino”? Va sottolineato che attualmente “ Il Messaggero” è completamente spalmato sul governo Meloni, come il burro sul pane. Certo, non è la fotocopia di quello Giallo-Verde, ma resta altrettanto populista: diciamo Nero-Verde, con spruzzate di azzurro forza-italiota.

Quella velenosa atmosfera populista, nemica delle “democrazie liberali”, che Barbano ha così ben contrastato e ricostruito, in Dieci bugie. Buone ragioni per combattere il populismo (Mondadori 2019), è la stessa che si respira in Fratelli d’Italia, per non parlare della Lega.

Forse, come si diceva un tempo, Barbano si prepara a combattere il populismo “dall’interno”? Bah…  “Il Messaggero”, a parte una fase di spiccato antifascismo durante gli anni Settanta e all’indomani del 25 Luglio, è sempre è stato un giornale molto benevolo verso i governi in carica. E con Caltagirone le cose non sono cambiate.

Pertanto, non crediamo che Barbano, proprio per la sua esperienza, non proprio positiva, al “Mattino”, non sappia ciò che lo aspetta.

Che dire? Quando si pongono agli addetti ai lavori domande sui cambiamenti di casacca dei direttori, rispondono secondo uno schema retorico standard: che sono sfide, che i bravi giornalisti accettano e sanno affrontare, eccetera, eccetera. Talvolta, si ricorre, in appendice, anche alla variante del professionismo: non importa il colore della casacca, perché un professionista, si comporterà sempre come tale, eccetera, eccetera.

Negli anni Novanta  Alexander Langer, giornalista, scrittore, punta di lancia del movimento ecologista e pacifista, a un certo punto capì che non ce l’avrebbe fatta né a riparare né a cambiare il mondo. E allora che fece? Si impiccò a un albero di albicocche. 

Cinquant'anni prima,  i fratelli Rosselli, Carlo e Nello, giornalista il primo, storico il secondo, furono "suicidati" dai fascisti a colpi di pistola e di pugnale. Avevano scelto, in particolare Carlo, la via del fuoriuscitismo. Una via durissima. Due antifascisti veri.

Langer e i fratelli Rosselli avevano sfidato il mondo, senza paura, e il mondo si vendicò in modo atroce.

Sfidare il mondo. Il lettore prenda appunto. Oggi su Langer e sui Rosselli esiste una bibliografia importante. Si scrive, si pubblica, si citano come esempi di coerenza politica, eccetera, eccetera. Tre eroi.

Però, ecco il punto, gli uomini sono quel che sono. E gli eroi si contano sulla punta delle dita. È così. E non possiamo fare nulla. Si piangono gli eroi, ma con un occhio solo.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2019/03/liberta-di-stampa-perche-e-mattino.html .

(**) Ampi stralci qui: https://www.adnkronos.com/economia/alessandro-barbano-direttore-messaggero_77CvPAp9m5fljQy3zjF7vP . Qui la versione integrale: https://www.ilmessaggero.it/italia/la_misura_delle_parole_rilancio_paese-8092580.html .

venerdì 3 maggio 2024

La partita a poker tra Russia e Occidente

 


Uno dei libri tuttora più interessanti sulle origini della Seconda guerra mondiale, rimane quello di Alan John Percivale Taylor (*), brillantissimo storico britannico scomparso nel 1990.

Un volume uscito nel 1961, già allora in aperta controtendenza, che, pur non sorvolando sulle responsabilità di Hitler, evidenziava quelle delle potenze democratiche, in particolare, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il libro piacque agli ex nazisti, perché sembrava attenuare le responsabilità di Hitler. In realtà Taylor, ripetiamo, non assolveva Hitler.

Allora, per lo storico, quale errore fu commesso dall’Occidente nei riguardi del dittatore nazista? Quello di mostrarsi arrendevole e disunito, al punto di  incoraggiarne l’ appetito geopolitico.

Hitler, al di là dei bellicosi propositi racchiusi nel Mein Kampf, era soprattutto un abile giocatore d’azzardo. Hitler, bleffava, cioè sviluppava la sua politica, che comunque era di potenza, giorno per giorno, sulla base delle reazioni delle nazioni democratiche alle sue sfide. Approfittando – qui la sua abilità – della loro disunita volontà di pace.

Se si rileggono le dichiarazioni hitleriane, si scopre che dopo ogni crisi, addirittura fino all’invasione della Polonia (1939), evocava una assoluta  volontà di pace. Chiedeva solo – così dichiarava – giustizia per la Germania. Non voleva altro, per poi tornare con tutto il  popolo tedesco alle normali e pacifiche attività civili.

In realtà, osserva Taylor, Hitler non aveva mai rinunciato a estendersi, a partire dall’ Est europeo.  Il dominio dell’Europa e in seguito  del mondo era in agenda, ma ci si doveva arrivare per gradi e non nel 1939. 

Fu la debolezza mostrata dall’Europa, dopo ogni crisi, e in qualche misura anche dall’Unione Sovietica, che venne a patti con Hitler (1939), che incoraggiarono il dittatore a colpire la Polonia (1939), sicuro di farla nuovamente franca. 

Taylor smonta, da par suo, il Memorandum di Hossbach (1937). Un documento che invece per altri storici, non meno capaci, proverebbe la irrevocabile decisione hitleriana  di fare la guerra. Non ci infiliamo in questa diatriba.

A noi interessa un’altra cosa. Taylor ci spiega che le guerre – in particolare la Seconda – spesso sono frutto di effetti perversi delle azioni politiche. Magari si vuole la pace, o comunque la si evoca, dall’una e dall’altra parte come negli anni Trenta del Novecento però, nonostante le buone intenzioni, ieri come oggi,  la guerra rischia  di scoppiare lo stesso.

Taylor non offre risposte definitive, non crede nelle guerre preventive, né preparate a tavolino, però fa capire, che, se fin dal 1931 ( invasione e attacco del Giappone alla Cina), le potenze democratiche, anche attraverso la Società delle Nazioni, si fossero mostrate più ferme nei propositi di pace e soprattutto solidali tra di loro, includendo addirittura la Russia sovietica, Hitler avrebbe moderato i toni e soprattutto gli atti. La guerra, allora sarebbe scoppiata prima? No, perché buoni e cattivi (diciamo così), non erano ancora preparati militarmente.

Non siamo del tutto d’accordo con le conclusioni di Taylor. Però se le potenze democratiche, non avessero agito in ordine sparso (sperando addirittura nella collaborazione di Mussolini e disdegnando quella di Stalin, fino al giugno del 1941), forse Hitler avrebbe trovato sulla sua strada più ostacoli. E chissà.

Ovviamente non si può fare storia con i “se”. Resta però interessante, a prescindere dalla questione delle responsabilità hitleriane (che, come detto, Taylor estende alla potenze democratiche), la griglia del “tavolo da gioco”, che si può ricavare dalla superba ricostruzione di Taylor. Che, inevitabilmente, rinvia a una partita al poker.  E in particolare alla capacità di bleffare dei giocatori.  Fermo restando – il lettore prenda appunto – che, come in ogni partita di  poker,  alla fine deve esservi lo showdown: quando i giocatori, residuali  o meno, devono mostrare le proprie le carte.

Si trasponga questa griglia (pokeristica) alla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina e ci si domandi chi bleffa. La Russia? L’ Ucraina? La Nato? L’Unione Europea? Gli Stati Uniti? Chi alza la posta, di volta in volta? E soprattutto che razza di partita a poker può essere? Se Mosca, fa capire, quasi da inizio partita, minacciando l’uso dell’arma atomica, che non è interessata a mostrare le sue carte?  Niente showdown insomma.

In realtà la vera domanda è un’altra? Non è forse la stessa minaccia atomica russa  una forma di bluff?  Che senso ha sedersi al tavolo da poker, sapendo che non ci saranno né vinti né vincitori? Che gusto c’è per la libido dominandi russa?   Che rimane la regolarità basica di ogni analisi metapolitica sulla persistenza del potere e del ciclo politico?

Crediamo perciò che la Russia stia bleffando. E come lo si può scoprire? Andando fino in fondo. E qui occorre che gli sfidati, l’Occidente, condividano la stessa volontà di showdown: di comprensione delle “regolarità” del poker metapolitico. Insomma serve un Occidente unito. Andare in ordine sparso è pericoloso. Pensiamo a certe dichiarazione interventiste di Macron o di segno contrario, degli italiani ad esempio.

Qui si torna – in parte – alla tesi di Taylor a proposito della disunione delle potenze democratiche che favorì l’escalation nazista. Cioè quei bluff successivi hitleriani che condussero il mondo alla guerra mondiale, volenti o nolenti il dittatore e le nazioni democratiche.

Conclusioni. Un’altra guerra mondiale può essere scongiurata solo scoprendo il bluff di Mosca. Andando allo showdown . E come sarà possibile? Ripetiamo, ci si deve sedere al tavolo di una specie di poker, metapolitico, di guerra,  e giocare fino in fondo. Uniti s’intende.

Carlo Gambescia

(*) A.J.P. Taylor, Le origini della Seconda guerra mondiale, Editori Laterza 1972.

giovedì 2 maggio 2024

Gianfranco Fini e Giorgia Meloni, un raffronto

 


Gianfranco Fini non è mai stato un pozzo di scienza.  Per capirsi:  né un intellettuale prestato alla politica (sebbene laureato in pedagogia), né un politico prestato alle idee (leggeva pochissimo, solo l’essenziale). Voleva smarcarsi da Berlusconi, guardava a una destra aperta ai diritti civili, più per altrui consiglio che per convinzione personale.

Aveva le carte in regola per creare una destra libertaria? Capace addirittura di incalzare la sinistra, come sostenevano alcuni intellettuali a lui vicini? Molti dei quali oggi passati armi e bagagli a Giorgia Meloni, che invece deride, perché ritenuta di sinistra, qualsiasi battaglia sui diritti civili?

In realtà Fini non aveva in testa alcuna idea, né libertaria, né neofascista. Non sapeva nemmeno lui dove far approdare Alleanza Nazionale. Fini rappresentava il classico caso dell’uomo fortunato, ma senza qualità, diciamo l’eroe per caso, che per una serie di circostanze propizie si ritrova ad assumere un compito che non è capace di assolvere. 

Perciò, alla lunga, addirittura  dopo tre lustri di potere, non poteva non commettere il fatidico errore. E lui ne commise almeno due: fidarsi di un pugno di opportunisti politici, intellettuali e giornalisti, peggiore di lui, e circondarsi, a livello familiare, delle persone sbagliate. E gli errori, prima o poi si pagano. Anche sul piano giudiziario, come prova la condanna dell’altro ieri.

Giorgia Meloni invece è l’esatto contrario, come ora spiegheremo. Va però prima detto che in una cosa somiglia a Fini: legge pochissimo. A parte Il Signore degli Anelli, gli ultimi libri, quelli di studio, li ha letti, probabilmente, alle superiori. Però, rispetto a Fini, il suo potere, non è frutto di circostanze fortunate. Ha lavorato duro. Controlla il partito, che ha ricreato dal nulla, con un rigore ignoto a Fini, uomo sostanzialmente pigro, anche nel punire i nemici. Per contro la Meloni teme le congiure di palazzo e, come scrivono i retroscenisti, si circonda di persone fidate a livello familiare e generazionale.

Quanto all’ideologia fascista, se Fini, pragmatico per pigrizia, non si poneva troppi problemi nel liquidare un’ingombrante eredità, la Meloni, autentico ritratto dell’industriosità politica, la usa, contrariamente all’ondivago e molle Fini, per ricompattare i suoi. 

Conosce quali tasti toccare. Ovviamente in versione continuità missina: del patriottismo di partito. Una linea di continuità partitica che però salta l’esperienza di Alleanza Nazionale  e di Futuro e Libertà: partiti “badogliani”, soprattutto il secondo,  come impone  l’indimenticata retorica missina del "tradimento", lungo un percorso  va dal  25 Luglio alla nascita  di Futuro e Libertà. Partiti  che infatti la Meloni non nomina mai  nei suoi discorsi.

Giorgia Meloni crede in quello che dice? Oppure no?

Difficile dire. Si può solo asserire, con certezza, che i suoi silenzi sul fascismo e sull’antifascismo, come del resto il patriottismo missino, non favoriscono l’evoluzione liberal-democratica di Fratelli d’Italia. Anzi favoriscono il passo del gambero.

Si rifletta su un punto fondamentale. Anzi su una differenza fondamentale.

In Gianfranco Fini, la miscela tra povertà intellettuale e pigrizia personale  aveva in qualche modo avviato processi di riconversione ideologica, con effetti non previsti, addirittura sorprendenti, in chiave libertaria. Che poi il libertarismo riuscisse a mettere radici è un’altra storia.

In Giorgia Meloni la povertà intellettuale si mescola all’ operosità, all’ardore, alla militanza, allo slancio politico. Però, dal momento che alle sue spalle, come un blocco di granito, c’è una cultura politica reazionaria, la sua solerzia politica ricorda quella del fascista, interpretato da Ugo Tognazzi ne “Il Federale” di Luciano Salce: il fascista stolido “del buca… sasso… buca con acqua”.

Detto altrimenti: con l’ “armadio” politico Gorgia Meloni (sebbene fisicamente sia tutt’altro) vanno esclusi, per il futuro, effetti ideologici imprevisti. Fratelli d’Italia andrà dritto per la sua autostrada del gambero. Questa volta nessuna fermata all’autogrill libertario.

Esageriamo? Si pensi al veto Scurati. Come non definire stolida, per la sua superficialità, la tesi dei milleottocento euro? Cioè il ridurre una questione di principio, quella del fascismo-antifascismo, a una questione secondaria di conti della serva.

Attenzione: se il veto non fosse frutto di stolidità, sarebbe addirittura peggio. Perché la sistematica denigrazione dell’avversario ridotto a nemico da distruggere moralmente (ma non solo, come insegna la storia fascista e neofascista) resta estranea alla dinamica politica liberal-democratica.

Nelle ultime scene  del  film di Salce,  Tognazzi rischia la fucilazione. Un professore liberale lo salva. Alla fine della pellicola si vede Tognazzi che scappa, dopo aver visto la morte con gli occhi.

Alla fine, si badi. Qui, invece, con Gorgia Meloni, probabilmente, siamo un’altra volta ai titoli di testa.

Carlo Gambescia